C’era una volta un clandestino: intervista allo scrittore Eltjon Bida

Eltjon Bida aveva solo diciassette anni quando salì su un gommone per lasciare l’Albania e raggiungere l’Italia. Erano gli anni Novanta e questo giovane migrante riuscì a scappare dalla povertà e dalla sofferenza.
Oggi la sua vita è un libro dal titolo C’era una volta un clandestino (edito da Policromia – PubMe). L’autore narra le fasi di un terribile viaggio verso la libertà per lanciare un messaggio di speranza a tutti quelli che sono in fuga.
Noi siamo riusciti a intervistarlo e questo è quello che ci ha raccontato.

Eltjon Bida: intervista

– “C’era una volta un clandestino” è un racconto autobiografico di un ragazzo che sognava una vita migliore. Chi era quel ragazzo?

Eltjon (Elti per gli amici ed Elty nel libro), era un ragazzo che amava la scuola e amava lo studio. In Albania, gli anni Novanta erano anni bui. C’era la fame, non c’era lavoro, c’erano disordini continui, si aveva paura delle piccole bande che picchiavano o accoltellavano per Mille lire. Chi si diplomava o si laureava, finiva per pascolare le pecore. Gli studenti non andavano più a scuola e, di conseguenza, queste chiudevano una dopo l’altra. A Elti, purtroppo, non veniva data la possibilità di crearsi un futuro, decise allora di partire per l’Italia e cercarne uno migliore.
Elti era un ragazzo semplice, onesto e con tanta voglia di imparare.

-Chi è oggi Eltjon Bida?

È sempre un ragazzo onesto e con tanta voglia di imparare, è solo un Elti più maturo. Lui non ha mai smesso di sognare. Sogna di finire entro l’anno altri 3 libri. Libri che ha iniziato a scrivere da tempo. Sogna che C’era una volta un clandestino diventi un film.

-Perché ha sentito l’esigenza di raccontare la Sua storia? Perché ha scelto di farlo scrivendo un libro?

Quando raccontavo ai miei amici come sono venuto in questo Paese, le avventure che avevo avuto nei miei primi anni qui in Italia, come avevo ritrovato mio fratello scomparso, come avevo vissuto nei vagoni di merce abbandonati, tutti mi dicevano: “Elti, la tua storia la devono sapere tutti. Dovresti scrivere un libro!”. Mi affascinano i libri che ti proiettano in un mondo diverso. Ammiro e, nello stesso tempo, invidio gli autori che hanno la capacità di creare quel mondo che ti coinvolge emozionalmente. Queste motivazioni mi hanno spinto a chiedermi: “Perché non provarci?”

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-Quali difficoltà ha incontrato scrivendo un libro del genere?

Il tempo e l’italiano. Volevo avere più tempo a disposizione. Ho una famiglia e ci tengo ad essere un padre e un marito presente. Volevo che il giorno fosse di 48 ore in modo da poter scrivere di più.
E poi l’italiano. Il mio italiano è buono, ma non come quello di una madrelingua. Spesso modificavo le frasi per trovare l’espressione giusta, quella corretta.

-L’immigrazione, ad oggi, è un problema che continua a persistere. Secondo Lei cosa bisogna fare per combatterlo davvero?

Dipende da come vogliamo combatterlo. Se pensiamo di combatterlo chiudendo i porti, secondo me non funziona. Se uno al suo paese rischia di morire di fame o per colpa della guerra, in qualche modo troverà il sistema per entrare in un altro paese o morirà cercando di sfuggire.
Una soluzione potrebbe essere quella di aiutare gli immigrati là, nel loro paese. Di creare lavoro, potare acqua, costruire ospedali, strade, scuole, eccetera. Lasciare che siano i paesi poveri a sfruttare i loro beni. Veda l’Africa ad esempio, i paesi “benestanti” portano un tot. di miliardi all’anno di aiuti, ma prelevano da quel paese beni di un valore quasi 10 volte più grande dell’aiuto che danno. Perché non insegnare agli africani come sfruttare i loro beni!?

Se io negli anni Novanta avessi avuto la possibilità di andare a scuola e di avere un lavoro, non avrei rischiato la morte attraversando il mare, ma sarei rimasto in Albania.
Poi, Le posso dire che non bisogna parlare come se l’immigrazione fosse l’unico problema in Italia, come se l’immigrazione fosse il male di tutto. Ci sono altri problemi molto più grandi, come i governanti corrotti, l’evasione e le mafie. Gli immigranti integrati possono essere una ricchezza per l’Italia.

-Lei ha dei figli. Come affronta con loro questa delicata tematica?

Noi in casa non abbiamo la TV e, sinceramente, non ho mai parlato con loro della questione dell’immigrazione perché non voglio che pensino sia un problema. Hanno amici italiani e di altre nazionalità e vogliono bene a tutti senza distinguerli dai paesi di provenienza o dal colore della pelle.

-Facendo riferimento alla Sua esperienza ha mai pensato ma chi me lo ha fatto fare?

Sì, mentre attraversavo il mare col gommone, avevo fatto quel viaggio da solo. Eravamo in ventisei su un gommone da sei posti. L’imbarcazione era piccolissima e io ero terrorizzato. Mi sono venuti in mente due dei miei cugini inghiottiti dal mare, probabilmente uccisi dagli scafisti per alleggerire il peso dopo essersi accorti che il gommone stava imbarcando acqua. Ricordo le onde che ci venivano addosso, i piccoli in mezzo a noi, le facce terrorizzate dei compagni di viaggio, il freddo tagliente, le mani ghiacciate, ricordo quando gli scafisti, a circa cento metri dalla riva ci dissero di buttarci nell’acqua con tutti i vestiti e le borse perché non potevano avvicinarsi di più.

Ho detto chi me lo ha fatto fare anche quando ad un certo momento, lo scafista timoniere spense il motore in mezzo al mare perché una nave ci passava vicino e non voleva che si accorgesse di noi. Una bimba di due anni che si era addormentata si svegliò e cominciò a piangere, l’uomo disse che se non la facevano smettere l’avrebbe buttata nell’acqua. La minaccia fece scattare i nervi del papà e i due per poco non vennero alle mani. Lo scafista impugnava una pistola e se avesse sparato al papà della bimba, molto probabilmente avrebbe sparato anche a tutti noi per non avere dei testimoni. Ecco, in quel momento avrei preferito tornare al mio paese e mangiare pane e sale.

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-Cosa deve rimanere alla gente del Suo libro?

Mi ha telefonato una persona sconosciuta e mi ha detto: “Sa, l’altro giorno è morta una carissima amica. Un giorno prima della sua morte, avevo cominciato a leggere il Suo libro e non riuscivo a smettere. Mi ha tenuto compagnia e sono riuscita a superare anche il grande dolore della morte della mia amica.”
Ecco, è quello che io voglio dal mio libro.

-Lei ritorna in Albania? Oggi si sente più italiano o più albanese?

Torno d’estate. Andiamo là non solo per trovare la parentela, ma anche per fare le vacanze. Mi sento italiano quanto albanese.
Mi sento albanese perché sono nato in Albania, là ho imparato a camminare, ho i miei ricordi da bambino. Mi sento italiano perché qui sono diventato un uomo, qui ho messo le mie radici, ho conosciuto la mia dolce metà e a Milano ci siamo sposati, qui sono nati i nostri due figli. Non posso scegliere tra questi due paesi meravigliosi. Li amo entrambi.

-I Suoi figli hanno dei contatti con le loro origini?

I miei figli si sentono italiani, albanesi e inglesi (mia moglie è inglese). In estate cerchiamo di spezzare le vacanze e fare un po’ di giorni in Albania e un po’ in Inghilterra, anche visitando amici e parenti, in modo da non perdere il contatto con le loro origini. A casa io parlo in albanese e mia moglie in inglese.

-Rifarebbe quello che ha fatto?

Eh sì! Altrimenti non avrei avuto una bella storia da raccontare! Scherzo!
Sì! Tranne il viaggio col gommone rifarei tutto. Sono esperienze che ti fanno crescere. Esperienze che ti fanno riflettere, esperienze che ti fanno apprezzare ciò che abbiamo e siamo oggi.

-Parte del ricavato della vendita del libro andrà all’Associazione Pane Quotidiano di Milano. Come mai questa scelta?

Le Caritas sono di grande aiuto per quelli che non possono comprarsi da mangiare. Ma non solo, tolgono le persone dalla brutta strada. A me personalmente, a mio fratello e ai nostri amici hanno dato non solo da mangiare, ma anche delle coperte per l’inverno. Poi, fare del bene, ti fa sentire bene.

-Nel Suo futuro ci sono dei progetti simili, ha ancora intenzione di affrontare il tema dell’immigrazione e integrazione?

Per ora sì. Sto finendo di scrivere la continuazione di “C’era una volta un clandestino”. Nel secondo libro sarà ancora più chiaro questo concetto: chi lavora e si comporta bene potrà avere un futuro felice, mentre chi sceglie un’altra strada che non è il lavoro potrà finire male.

-Oggi è felice della Sua vita?

Felicissimo! Fare lo scrittore per me è sempre stato un sogno. Non so quanto durerà, ma proverò a farlo durare più che posso.
Ho una moglie fantastica e due figli meravigliosi. Non ho motivo di essere infelice.

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Eltjon Bida alla premiazione ‘Books For Peace Special Award 2019’

Marilisa Pendino 

 

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